Dalla “disintegrazione” del 1989 alla consapevolezza del nuovo “Bloodflowers”. Tornano i Cure, in tour in Italia dal 4 all’8 maggio
“Da giovane non avrei mai pensato di fare soldi con la musica”
MILANO – Tornano i Cure, più visionari, appassionati e psichedelici che mai. L’album del sorprendente ritorno si chiama Bloodflowers e già dall’ardente titolo si intuisce una forza catartica e lirica che la band inglese sembrava avere smarrito. Anche se la formazione è praticamente la stessa dell’album precedente, Wild mood swings, che risale al 1996, i Cure sono sempre più Robert Smith-dipendenti. La sua voce straniata interpreta ballate vertiginose, tra l’acustico e l’elettronico moderato, con un’intensità che forse non aveva mai toccato prima, almeno su un disco non di studio. Leggermente ingrassato, gentilissimo e compunto, i capelli sempre spiritati, ma con le labbra per una volta senza rossetto, il “messia della malinconia” sembra più sereno, con il morale alle stelle. Un uomo nuovo. E racconta così l’undicesimo album di studio firmato dai Cure: «Non è stata una scelta mia quella di far uscire l’album nel Duemila: è stata la casa discografica che ha voluto evitare la corsa del periodo natalizio e di fine millennio. Non ero d’accordo, anche perché è un disco nostalgico e forse sarebbe stato più giusto farlo uscire nel 1999. Così ho avuto più tempo per provare con la band e essere pronto per il nuovo tour».
Da dove nasce tutta questa nostalgia? «Nel 1989, quando stavo per compiere 30 anni, abbiamo fatto un album intitolato Disintegration, che era per me una faccenda molto privata. Da allora non ho più registrato dischi così, su di me voglio dire. Anche se cantavo in prima persona, non ero proprio io. L’anno scorso, a 40 anni, ho sentito il bisogno di un disco che facesse da contrappunto a Disintegration. E’ il mio album più personale e riflette come mi sento in questo periodo della mia vita. Ci ho messo dentro anche cose che abbiamo già fatto prima, per trovare una strada sensata verso un inevitabile cambiamento. Per questo pensavo che fosse più logico farlo uscire l’anno scorso e poi, nel Duemila, dedicarmi al mio album solista».
E’ da tempo che si parla di un disco di Robert Smith come solista: sarà la volta buona? «In un paio di occasioni, negli ultimi vent’anni, avevo cominciato a farlo, ma poi ho smesso. Ma ho ancora qualche canzone nel cassetto». Ha mai pensato di poter diventare un nuovo Nick Drake? «Era solo un’ambizione alta. Nick Drake è stata un’ispirazione quando sono diventato cantante e autore di canzoni, ma l’album che farò quest’anno non ha parole né canto. E’ una musica strana. L’ho fatta ascoltare agli altri della band, ma non è piaciuta. E’ un progetto al quale mi voglio dedicare per un paio d’anni, ma ho voluto prima immergermi in quest’esperienza pop. Perché desideravo che i Cure facessero prima questo cd. Mi sento realmente diverso oggi, mi sento nuovamente positivo dopo un lungo periodo di depressione. Sentivo la band stanca e volevo che mi dimostrasse di poter fare un grande disco».
Come trovare nuove motivazioni, nuova linfa vitale alla fine di un secolo così creativo e carico di memorie? «Le motivazioni per scrivere musica sono quelle di sempre e sono ancora forti come all’inizio. Non mi toglie energia lavorare ogni giorno, mi piace moltissimo. I problemi cominciano con le uscite pubbliche: tour, interviste, foto, video, ne faccio sempre meno. Fino al giorno in cui smetterò del tutto di mostrarmi. Sto impostando il mio lavoro in modo da tenere disgiunte le due cose: la musica e il canto; non voglio che dipendano l’una dall’altro. Il problema non è avere motivazioni o svegliarsi male la mattina. A me di solito viene bene scrivere musica. Non è questione di essere più o meno avanti con l’età, puoi fare musica fino a quando muori e molto vecchio. E’ forse insolito nella pop-music, anche se oggi sta diventando possibile, perché gli artisti pop si rifiutano di crescere. Anche quando ero giovane e i miei eroi si chiamavano Jimi Hendrix, Nick Drake e David Bowie, non ho mai fatto distinzioni di età. Hendrix e Drake se ne sono andati presto, un altro che ammiravo molto era Alex Harvey, ma per me non erano né giovani né vecchi, erano solo buoni musicisti. Credo che la cosa che fa la differenza è come sembri tu, se vuoi essere contemporaneo, o alla moda, o sedurre solo i più giovani. La giovinezza non autorizza nessuno a spaziare in ogni tipo di musica».
Oltre il mito dei Cure, chi è Robert Smith oggi? «Mi sento più spirituale e ho molte affinità con una band di giovani scozzesi, i Mogwai, che ha inciso solo due album. Suonano molto “rumorosi” e hanno uno spirito molto vicino al mio. Ma rispetto artisti come Neil Young, anche se non stravedo per quello che fa, o David Bowie, che ho incontrato un paio di volte. Non abbiamo molto in comune, ma lo ammiro. In genere preferisco i giovani perché rimangono più positivi e ottimisti. Il cinismo arriva quando sei più vecchio e hai più esperienza. Anche se i Cure hanno avuto successo, non ho mai desiderato essere famoso. Sono sposato con una donna che non ha mai voluto essere legata ai Cure. L’ho conosciuta agli inizi, e il successo non ha niente a che fare con il nostro incontro. Il nostro è un rapporto molto segreto e privato, non abbiamo figli, ma possiamo giocare con 21 nipoti. Viviamo nel nord, con molta serenità. Mia moglie ama Bloodflowers, dice che è il disco più bello dei Cure».
Ha guadagnato molto denaro in questi anni? «Sì, anche se da giovane non avrei mai immaginato di far soldi con i Cure. All’inizio volevo solo fare un lavoro diverso dal normale». Cosa le piace di meno? «Non mi piace volare. L’ho fatto centinaia di volte, ma continua a non piacermi. Perdo il controllo negli aeroporti. Il viaggio è l’aspetto del tour che mi piace di meno. In Italia arriveremo a febbraio per uno showcase e torneremo ad aprile per il tour. Una volta facevamo centinaia di concerti, ora in Europa non faremo più di una ventina di show, forse due o tre in Italia».
3 febbraio 2000
© Giacomo Pellicciotti