Sogni che sanguinano

The Cure Bloodflowers: un cd magico

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“Pop, rock, new wave…non conta il genere ma quanta anima ci metti”

Il ritorno della band di Robert Smith Dopo anni di silenzio e voci di scioglimento, rieccoli con un album rock ancora una volta tra malinconia e dolcezza: cioè un nuovo autoritratto del leader.

Una cascata di emozioni forti, intense, che si insinuano sotto pelle, lente e inesorabili. E’ questo l’effetto delle dieci gemme che compongono Bloodlfowers, l’album che spezza ogni legame con le tentazioni pop della recente produzione.

Seduto nella stanza di un albergo milanese, con i capelli arruffati e lo sguardo sospeso a metà tra dolcezza e malinconia, Robert Smith ci racconta con il consueto garbo l’ennesima mutazione della sua creatura… “molti sono convinti che questo sia l’ultimo disco dei Cure…in realtà qualcuno ha frainteso le mie parole. Al momento di registrare ho chiesto ai ragazzi del gruppo di impegnarsi come se questo fosse l’ultimo album della band. Non volevo registrare un disco qualsiasi, ma un classico album dei Cure. Sinceramente mi pare di aver centrato l’obiettivo. Far credere che questo sia il capitolo finale potrebbe rivelarsi una buona mossa di marketing, ma in realtà non c’è nulla di ufficiale. Ogni album è una nuova avventura e non c’è scritto da nessuna parte che io non abbia più voglia di provarci ancora. Comunque, non escludo che la mia prossima mossa sa un album solista, senza gli altri della band. vedremo…. Non mi piace fare troppe previsioni a lungo termine” Anche sul titolo del cd sono circolate molte voci…”in effetti il titolo originale doveva essere Watching me fall. Poi è nata Bloodflowers, la canzone che chiude il disco. Mi sono innamorato di quel pezzo e ho deciso che doveva essere il titolo dell’intero lavoro. Ho tratto ispirazione da un’espressione del pittore norvegese Edvard Munch, un’artista con uno stile visionario, influenzato da un senso tragico della vita. (Munch, 1865-1944, è l’autore del famosissimo quadro denominato L’urlo) lui usava il termine “bloodflowers” per descrivere lo stato d’animo, spesso sofferto, da cui nascevano le sue opere. A 25 anni dagli esordi, Robert ha la stessa espressione di allora. Sembra ieri quando circolavano le prime foto di una band molto promettente, che pur essendo nata nel pieno dell’esplosione punk, aveva applicato al rock toni e atmosfere lontani anni luce dalla furia nichilista di Vicious e soci.

“Ogni tanto mi vengono in mente le prime esibizioni live quando ci chiamavamo ancora Easy Cure. Suonavamo tutte le settimane per qualche birra gratis. Di soldi proprio non ne vedevamo. Non avevamo abbastanza pezzi per mettere in piedi una scaletta, così pescavamo dal repertorio di David Bowie e Jimi Hendrix”. Torniamo al presente. Tra le canzoni di Bloodflowers, There is no if… è senza dubbio quella con l’atmosfera più struggente, drammatica…”questo pezzo ha una storia lunghissima. Il testo risale a quando avevo vent’anni. Parla delle cose che terminano e dell’ineluttabilità della fine di tutto. Ho cercato spesso di metterlo in musica ma, evidentemente, farlo aveva delle implicazioni emotive che mi hanno bloccato. Stavolta ce l’ho fatta e devo dire di essere molto soddisfatto della resa finale”. Dalla musica alla politica. Parlando con Joe Strummer, l’ex-vocalist dei Clash, ho avuto la sensazione che molti musicisti inglesi, dopo averlo sostenuto, siano rimasti delusi dal governo del laburista Tony Blair…”subito dopo la vittoria del Labour Party c’era in giro molta euforia. Adesso molto meno. Sai, per mantenere il potere bisogna essere pragmatici e scendere a qualche compromesso”.

Un’ultima curiosità. Come ci si sente dopo vent’anni di carriera in un mercato, come quello inglese, che brucia le band nel giro di un paio di mesi? “ho rinunciato a capire le dinamiche che stanno dietro alla stampa musicale inglese. Certe volte ci hanno trattato come degli eroi, mentre in altre occasioni non ci hanno nemmeno preso in considerazione. Ma noi abbiamo resistito e infatti siamo ancora qui”.

Febbraio 2000

© Gianni Poglio

 

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