The Cure a Bologna, tre ore di dark show

Trentadue anni dopo, Robert Smith è tornato in città. In scaletta tutti i principali successi

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Immaginate di aver passate l’infanzia ad ascoltare vostro padre cantarvi ninnananne che raccontano cose rassicuranti come “Dormi ora o non ti sveglierai mai più”. Certo, crescerete con un immaginario dark e un certo fascino per il buio e le tinte scure, ma magari da grandi ci scriverete pure su una canzone, che può addirittura finire per diventare un classico che interi palasport cantano e accolgono con un boato, tipo “Lullaby”, appunto.

A 32 anni dall’ultima volta, riecco finalmente The Cure a Bologna, e per farsi perdonare dalla lunga assenza propongono ai 16mila dell’Unipol Arena uno show vicino alle tre ore e una scaletta quasi didascalica di quella che è la storia della più importante band della scena dark wave e post punk inglese tuttora in attività. Nei prossimi giorni, poi, il, gruppo britannico sarà anche a Roma e due volte a Milano.

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Dei Cure originali resta solo il frontman Robert Smith, e anche se il tempo passa per tutti è come te lo immagini, come lo hai visto mille volte in foto, con il trucco bianco, il pallore, quei cappelli scomposti alla Edward mani di forbice. La voce, pure, è quella che ricordi e riconosceresti tra mille, e ha retto bene allo scorrere degli anni, pagando magari qualcosa nella coda dello show, ma dopo oltre trenta canzoni è comprensibile. C’è un po’ di tutto, tranne l’ostico “Pornography”, nella setlist di questo tour, pur in continuo aggiornamento data dopo data. Un inizio col piede sull’acceleratore, con “Plainsong” in apertura seguita a breve da “Closedown” e “Push”, poi dopo oltre un’ora e mezzo la prima pausa, che prelude a tre blocchi di bis che di fatto danno inizio a un altro concerto, a partire da un quartetto di canzoni tratte da “Seventeen seconds”, il secondo disco datato 1980. E pare che Smith abbia finalmente fatto pace anche con quelle super hit del loro repertorio di cui s’era disinnamorato proprio a causa dell’eccessiva popolarità che avevano guadagnato, vedi “Friday I’m in love”, arrivata in un finale che riserva i momenti più pop della serata subito prima dell’altro brano cult “Boys don’t cry”.

È forse l’autunno della malinconia rock, delle grandi band storiche che non s’arrendono al tempo che passa, mettono indietro le lancette e rivendicano ancora un ruolo primario nello scenario musicale odierno. Giusto un mese fa abbiamo visto in questo stesso palasport gli Who, sulla strada sono tornati Rolling Stones, Roger Waters, Bob Dylan e tanti altri. Tra cui i Cure, che di essere alla moda non si preoccupano affatto, fieramente fuori dai tempi col loro abbigliamento e con i toni cupi, a volte decisamente oscuri, della loro dark wave decadente. Per poi scoprire che quando parla Smith è capace addirittura di fare battute. Della serie, anche i principi del buio sanno ridere.

© Luca Bortolotti & La Repubblica

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