L’estate che Albert Camus descrive ne “Lo straniero” è quella calda, soffocante dell’Algeria tra la prima e la seconda guerra mondiale. Una stagione destinata a cambiare per sempre la vita, fino a quel momento ordinaria e quasi banale, dell’impiegato Mersault. Lui, uomo qualunque, talmente anonimo da passare inosservato, che improvvisamente fa qualcosa di orribile: uccide un arabo. Un personaggio tormentato, irrisolto, estraneo al mondo e a se stesso quello di Mersault. Sui motivi del suo folle gesto si sono interrogati in tanti. Generazioni e generazioni di studenti e semplici lettori che hanno amato il romanzo dello scrittore francese pubblicato nel 1942, pietra miliare dell’esistenzialismo. Quel comportamento inspiegabile ha stuzzicato la curiosità anche di un giovane ragazzo inglese, che “Lo straniero” l’aveva incontrato sui banchi di scuola. Al liceo di Crawley, microscopico villaggio tra il Surrey e il Sussex.
Aveva sedici anni Robert Smith quando ha scritto “Killing an Arab”, canzone in cui denunciava l’assurdità della vita quotidiana e la futilità dell’azione di uccidere, immedesimandosi in Mersault. Aveva sedici anni e non credeva certo che, per via di quel pezzo, di quel titolo, di quel testo, si sarebbe messo nei guai. Lui, Lol Tolhurst e Mike Dempsey non erano ancora i The Cure ma solo tre amici che si incontravano di nascosto per far musica dopo le lezioni, sognando di scappare da quell’ambiente così poco stimolante. Tre amici che si esibivano nei pub, suonando “Killing an Arab” senza che di quelle parole controverse si accorgesse nessuno. Ad ascoltarli solo compagni di scuola a cui l’incipit – “Standing on a beach/ With a gun in my hand/ Staring at the sea/ Staring at the sand/ Staring down the barrel/ At the Arab on the ground” ricordava solo noiosi pomeriggi passati in classe. La fama, il successo sembravano un miraggio lontano, vago e indistinto come i contorni delle cose nella calura algerina. Roba che succedeva ad altri, a chi viveva a Londra, non a loro. Ragazzini di provincia naif, ambiziosi e così ingenui da rispondere all’annuncio di una misteriosa etichetta tedesca, la Hansa Records, in cerca di nuovi talenti. Talmente intraprendenti da accettare di firmare un contratto discografico quasi a scatola chiusa. E da proporre “Killing an Arab” come primo singolo. Senza successo perché la Hansa, come ha ricordato un piccato Smith in un’intervista a Sounds nel 1979, “si è rifiutata di pubblicarlo: dicevano che anche se era una buona canzone non potevano farla uscire perché non dovevamo contrariare gli Arabi…”
Era solo il primo dei tanti grattacapi che “Killing” avrebbe procurato alla band. Uscita nel 1978 per la piccola etichetta Small Wonder ha generato subito molto interesse e infinite polemiche. Accuse d’irresponsabilità e razzismo che si sono protratte per anni, sempre categoricamente smentite da un Robert Smith battagliero, che dichiarava tra ironia e amarezza a Adrian Thrills dell’NME: “La canzone è dedicata a tutti gli arabi ricchi che vanno in discoteca al Crawley College a rimorchiare ragazze (…) ma non è veramente razzista (…). Non è un invito a ammazzare gli arabi. È solo capitato che il protagonista del libro avesse ucciso un arabo. Ma avrebbe potuto essere uno scandinavo o un inglese. Il fatto che avesse ucciso un arabo non c’entra niente, sul serio”. Quando “Killing an Arab” è stata ripubblicata dalla Fiction Records nel giugno del 1979 la situazione non era delle migliori, dunque. Tanto che, per chiarire una volta per tutte a cosa Smith si fosse ispirato, l’etichetta distribuiva copie gratuite de “Lo straniero” insieme al disco. In proposito Mike Dempsey, primo bassista della band, intervistato dal magazine francese Best ha commentato: “Il razzismo è troppo pericoloso e ovvio, quindi mettiamo a disposizione il libro correndo il rischio di passare per un gruppo di intellettuali. E non siamo intellettuali. Non apparteniamo a nessuna ondata particolare”. Pensare che era solo l’inizio e non la fine della travagliata vita di quei tre minuti di rabbia metafisica, di quella chitarra “piena di sinistre promesse [che] scivola sinuosa come il figlio di una danzatrice del ventre e di un serpente velenoso”, come l’aveva definita l’NME.

I problemi, quelli grossi, sarebbero arrivati con il tentativo dei Cure di pubblicare la canzone in America. “Killing an Arab” è sbarcata oltreoceano prima come lato B di “Boys Don’t Cry” nel 1980, passando quasi inosservata. Poi però è stata inclusa nella raccolta di singoli “Staring at the Sea” pubblicata dalla Elektra nel 1986. A ottobre dello stesso anno un dj della WPRB (radio della Princeton University) l’ha introdotta allegramente dicendo: “Ecco una canzone sull’ammazzare gli arabi”. Un commento fuori luogo che ha creato una situazione esplosiva, calda e arroventata almeno quanto quella spiaggia sabbiosa dove Mersault camminava, andando incontro al suo destino. Non era certo questa la pubblicità che i Cure avrebbero voluto e neppure la loro etichetta, presto subissata da telefonate di ascoltatori indignati che accusavano il pezzo di razzismo e ne chiedevano il ritiro. Preoccupata dalle critiche ricevute, per cercare di evitare un danno d’immagine che avrebbe potuto costare milioni di dollari, la Elektra ha cercato disperatamente di fare marcia indietro togliendo il disco dal mercato o la canzone dal disco. Solo che (in base al contratto firmato dai Cure) la label non aveva il potere di fare alcunché senza il consenso della band, consenso che Smith e soci non avevano alcuna intenzione di concedere. Solo a dicembre, dopo mesi di rovente dibattito, è stato raggiunto un accordo: “Killing an Arab” rimaneva dov’era, i Cure potevano suonarla, ma le radio venivano caldamente invitate a non trasmetterla. Inoltre su ogni copia di “Staring at The Sea” doveva essere apposto un adesivo con la scritta: “La canzone ‘Killing an Arab’ non ha alcun contenuto razzista. È un pezzo che condanna l’esistenza di ogni pregiudizio e (…) violenza. I Cure deplorano il suo uso nell’incitare all’odio razziale”. Una vittoria a metà per la band inglese, filosoficamente riassunta dal manager Chris Parry con un ironico: “Se la canzone si fosse chiamata The Stranger non avremmo avuto questi problemi”. Molto meno rassegnato Robert Smith, mai così impegnato a ribadire che “il fatto che fosse stato un arabo ad essere ucciso a me sembrava totalmente irrilevante, come immagino fosse per Albert Camus (…) era solo per motivi di ambientazione, il fatto che fosse un arabo e non qualcun altro”. Il suo giudizio sul compromesso raggiunto grondava amarezza e disillusione: “Siamo stati costretti. C’erano altre soluzioni ma sarebbero state più dolorose per noi. (…) Non mi ha fatto piacere, sul serio, dovermi fare avanti e spiegare (…) non avevamo interesse a continuare a parlarne”.
Povero Robert, pensava che fosse finita sul serio stavolta. Invece la lunga vita di “Killing an Arab” gli avrebbe riservato altre sorprese e non delle più piacevoli. Quasi venti anni dopo, nel 2001, quella canzone sarebbe tornata agli onori della cronaca finendo, suo malgrado, nella lunga lista di brani che le radio statunitensi non potevano trasmettere dopo l’undici settembre. Stavolta però il furbo signor Smith aveva giocato d’anticipo. Riflettendo su quei tre minuti, sulle parole scritte in gioventù che tornavano a tormentarlo, in quel periodo dichiarava pensoso: “Se c’è una cosa che cambierei è il titolo”. Ed è puntualmente ciò che ha fatto, non prima di concedere a “Killing” una lunga, meritata vacanza. Sparita dai concerti, dimenticata, missing per quattro lunghi anni. Fino al 2005, quando è tornata sotto le mentite spoglie di inno pacifista (“Kissing an Arab”). Titolo poi trasformato nell’improbabile ma certamente più cattivo “Killing Another” nel 2009, da uno Smith ben contento di liberarsi finalmente dal legame assassino con quel libro tanto affascinante ma anche così maledetto.

Un’opera che molti hanno provato a interpretare, a far propria, cadendo spesso preda della sfortuna che sembrava contagiare chiunque si interessasse alla triste sorte di Mersault. Una maledizione di cui è rimasto vittima anche Luchino Visconti, che “Lo straniero” l’ha portato al cinema nel 1967. Un film poco apprezzato, scarsamente amato anche dallo stesso regista, che non sopportava di non aver avuto a riguardo il pieno controllo creativo. Prigioniero di un contratto capestro siglato tra il produttore De Laurentiis e la vedova di Camus, Francine, che pretendeva il rispetto assoluto del testo scritto dal defunto Albert. Poche le libertà che Visconti si è potuto concedere, dovendo scendere a compromessi sia riguardo al cast (avrebbe voluto Alain Delon invece di Marcello Mastroianni) che al modo di narrare il dramma del cittadino modello divenuto killer. Se ne avesse avuto la possibilità infatti, il regista avrebbe preferito un approccio differente, più corale e meno incentrato sulla figura di Mersault. Tanti punti di vista diversi, flashback in stile “Rushomon”, magari anche rileggere la storia alla luce dell’evoluzione democratica dell’Algeria moderna, sottolineando il valore simbolico dell’arabo morto. Invece ha dovuto farsi bastare i dettagli, all’interno di uno schema che prevedeva la più totale fedeltà all’originale. Accontentarsi di quella dissolvenza in nero nel finale, in cui far precipitare il protagonista. Una piccola vendetta in calce a un sogno svanito. Un film amaro, “Lo straniero”, per Visconti. Lo definiva “più che un figlio nato male, un figlio nato con delle limitazioni”. Un figlio che non ha voluto rivedere, prima di morire. Dimenticandolo in un cassetto.
© Valentina Natale