The Cure sono in Italia per un tour… da lacrime

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I Cure sono in Italia! Robert Smith e soci hanno suonato sabato 29 ottobre a Bologna mentre ieri sera erano di scena a Roma, dove sono andati avanti per tre ore. Chiuderanno il tour italiano con due date a Milano, martedì 1 novembre e mercoledì 2. Gli eventi sono organizzati da Barleyarts Promotion.

Ragionare su un concerto dei Cure nel 2016, potrebbe risultare vagamente anacronistico; eppure, considerando i sold out fin qui ottenuti con il tour mondiale in corso, vien da pensare che quando Manuel Agnelli cantava “non si esce vivi dagli anni 80” aveva proprio ragione! Quindi diffidate dai soliti darkettoni pronti a mostrare orgogliosi «la propria memoria», i Cure suonano oggi come allora e considerando le scalette proposte a Bologna e Roma, non c’è da dubitare! Parliamo di playlist da lacrime interamente concentrate sui lavori migliori della band inglese, apparsa sui palco in grande forma.

Ricapitolando, Robert Smith dopo aver tentato (invano) di produrre dischi all’altezza del proprio aureo passato, pare, dunque, concentrato sulle esibizioni live orientate all’interno di una produzione discografica che non lascia scampo. A parere di chi scrive, è questa una cosa saggia che dovrebbe essere presa ad esempio da altri gruppi anni 80 ancora in orbita. Della serie: “Se proprio non riuscite a fare come Michael Stipe con i suoi Rem, provate a mostrare il meglio di voi senza aver la presunzione di pensare che ciò debba essere ancora concepito”, i gioielli – se tali – risplendono per sempre.

Anche perché diciamolo chiaro, ciò che ci si aspetta da formazioni così longeve, non sono certamente le produzioni tardive, quelle sono appannaggio di giovani neofiti ai quali si chiede costantemente di compiere uno sforzo, non soltanto nel cotonarsi i capelli ma soprattutto per studiare sistematicamente e filologicamente certa musica.

 Ma che tipo di fauna attrae, al giorno d’oggi, un live di Robert Smith? Immaginare un folto pubblico di ultra quarantenni non è un azzardo, sebbene anche le nuove generazioni, soprattutto quelle connesse alla nicchia musicale, siano estremamente partecipative e non esclusivamente costituite da “poser scellerati”; in ambito esistono giovani appassionati e sinceri, in grado di declamare senza affanno alcuno la solennità di certi versi.

Il rovescio della medaglia è certamente costituito dalla figura del darkettone vecchio stampo; viaggia intorno ai cinquanta e siccome gli anni 80 li ha vissuti da protagonista, ritiene di poter declamare gli stessi versi come nessun altro. Ha forse ragione? Di certo sappiamo che l’allure che lo circonda è indiscutibilmente parte di un tradizionale folklore dal quale non è possibile sottrarsi, come fosse un meraviglioso gioco delle parti. Anche in tal caso, esiste in contrapposizione, un esercito di appassionati che lascia ben sperare sulle sorti di un genere musicale il cui denominatore comune – capace di mettere tutti d’accordo – resta inequivocabilmente la passione.

Il solito dj qualunque, in rigoroso total black, tornerà per l’ennesima volta a vedere i Cure dal vivo mercoledì a Milano, declamando a sproposito la propria memoria insieme agli amici di sempre, come fosse un meraviglioso gioco delle parti.

9 canzoni 9… dei Cure

Lato A

A Forest

A Strange Day

Shake Dog Shake

Charlotte Sometimes

 

Lato B

M

One Hundred Years

Fascination Street

Killing an Arab

Primary

© Marco Pipitone & Il Fatto Quotidiano

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The Cure in concerto a Roma: quando il dark diventa un grande “Lullaby”

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Di anni ormai ne ha 57, ma la voce è sempre quella. Robert Smith ti rapisce per quasi tre ore di concerto. Ieri sera al Palalottomatica di Roma: oltre 30 ‘ninna nanne’ dei suoi ‘The Cure’, capolavoro riuscito di dark wave e post punk che ha dettato legge dalla seconda metà degli anni ’70 fino ai ’90. Tenero, gentile col pubblico e anche scherzoso, quel tanto che basta per confermare che con lui il dark assume sempre il volto di un peluche da coccolare.

Robert Smith scalda. Con lui il gotico diventa sempre rifugio per chi oltre ai Cure ama – o amava – perdersi negli incubi dei Joy Division o imbottirsi delle acidità di Siouxie and the Banshees. Mettici anche il tempo che è passato e il ricordo che si fa nostalgia: è un attimo e un concerto del leader dei Cure nel 2016 diventa un abbraccio confortante. Chi l’avrebbe mai detto?

Tutti i fans che ieri hanno riempito il Palalottomatica, certo. Esordio con ‘Shake dog shake’, subito dopo la splendida ‘Fascination Street’ e ‘A night like this’, pezzi noti da ‘Pictures of you’ a ‘Lullaby’ fino a ‘Boys don’t cry’ e ‘Close to me’ che vengono riservate per i bis finali: ben tre.

Ci sono i pannelli a far da scenografia: talvolta servono per portare in primo piano il faccione pallido con rossetto e kajal di Robert. Altre volte proiettano immagini di proteste e oppressione, migranti in mare e Mohammed Alì sul ring, guerre e fungo atomico. Oppure l’ombra di una ragazza che danza in kimono, a dire del fascino per l’oriente che ha rapito tanti 30-40 anni fa, da Smith a David Bowie, David Sylvian. Poi alla fine del primo bis quegli stessi pannelli ti prendono per mano e ti portano tra gli alberi, nella notte: ‘into the trees’ di ‘A forest’, uno dei brani più riusciti del concerto.

Robert Smith piace. Perché è uno di quelli che non si preoccupano di finire come Sean Penn del film ‘This must be the place’, ex rockstar in pensione, triste prigioniero del cerone e della cipria a 60 anni. Il leader dei Cure pure non molla gli strumenti del mestiere, è l’unico del gruppo a non aver abbandonato la band: non si preoccupa di risultare fuori sincrono, almeno fino a quando continuerà a riempire i palasport. Il tour del 2016 è lunghissimo, attraversa tutta l’Europa (Germania, Belgio, Olanda, Spagna, Francia…) per finire in madrepatria, la Gran Bretagna. Oltre 30 pezzi di un genere musicale, post-punk e dark, molto frequentato negli anni ‘70-80, ma che i Cure sono riusciti a personalizzare e anche a commercializzare di più, giocando con le note della tristezza. Con loro sono diventate tanti, brillanti, esempi di ‘Lullaby’.

© HuffingtonPost Italia

The Cure, l’incredibile show della vita e della morte

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Il dark e il pop, il nero e tutti i colori, messi in scena dalla band nel tour italiano e interpretati da quella immortale maschera horror e clownesca che porta il nome di Robert Smith

Il nero dei capelli. Il nero della matita intorno agli occhi piena di sbavature. Il nero degli abiti. E poi sempre più dentro, fino al nero che è l’unico colore che si riesce a vedere nei momenti bui.

“See into the dark, just follow your eyes”… Ancora: “The sound is deep, in the dark, I hear her voice”. Parole di A forest, che con quel basso insistente, alla vigilia di Halloween, all’interno del Palalottomatica di Roma, rimbombano. Fin troppo, colpa della pessima acustica del palazzetto.

Ma i Cure vanno avanti, ad immergersi nel buio, a scavarlo per scoprire che dentro ci sono un sacco di persone che vedono nero. “But the fear takes hold, creeping up the stairs in the dark, waiting for the death blow”. E ancora “Under a black flag, a hundred years of blood”. Così canta Robert Smith in One hundred years, brano antimilitarista accompagnato da immagini in bianco e nero (c’è anche Mussolini), uno dei momenti più bui, che apriva quell’occhiata nel terrore che era Pornography, del 1982, composto al culmine della depressione di Smith. All’interno del palazzetto vecchi darkettoni e giovani adepti del culto ascoltano in silenzio.

E invece no. Il concerto non è solo questo. Non è il tour della trilogia dark, non è una black celebration. “Troppo pop”, è il commento di chi sperava in un tuffo in Faith e dintorni. “Pop” è solo uno dei tanti colori che da quel nero man mano emergono. “Pop” alla maniera unica di Robert Smith. Che attacca alle 20:30, inaugurando le 2 ore e 40 minuti di live con Shake dog shake. Un modo tutto suo di dimostrare solidarietà con l’Italia scossa dal terremoto? No, spesso in questo tour partito il 10 maggio da New Orleans iniziano così. E subito dallo scarno palco nero iniziano a colorarsi i laser, le proiezioni, i filmati. Inizia così un viaggio attraverso l’arcobaleno pop e rock di 40 anni di musica vissuta davvero senza compromessi. Che colore era quello delle schitarrate allegre di In between days? E la wave era già new quando nel 1980 pubblicavano Play for today, a suo modo perfetta anche per gli stadi? Il nero diventa fumettistico e si tinge di rosso e ragnatele per Lullaby, che rientra nella categoria “singoli strani” che i Cure hanno sempre tirato fuori anche quando sembrava che il nero fosse l’unico colore possibile. Il post punk era già un ricordo quando con Let’s go to bed (ma al palazzetto si sente malissimo) sembravano i Depeche Mode di Some great reward? Colori, generi ed emozioni sempre diverse. I Cure sono anche quelli funk di Hot hot hot!!! Addirittura quelli cabarettistici di Lovecats. E quelli che a cavallo degli anni Novanta declinarono a modo loro anche le sonorità Madchester: a Roma dopo Never enough arriva anche Wrong number in un arrangiamento che sembrano gli Stone Roses. I Cure – in formazione con Smith e Simon Gallup è tornato anche il tastierista Roger O’Donnell a rimpolpare il sound – sono anche quelli di Lovesong, di cui Adele ha realizzato una cover nel suo album super best seller che ancora rimpingua le casse di Robert Smith.

Troppo pop? Ditelo a quella meraviglia di The edge of the deep green sea, cavalcata monumentale risalente alle seconda, terza vita dei Cure, che nonostante sia interpretata da Smith evitando accuratamente le note più alte (le primavere sono comunque 57 per l’artista) rimane uno splendido racconto breve (prima o poi magari qualcuno azzarderà candidarlo al Nobel). La stessa cosa per ora non si può dire dei due inediti che propongono in tour, il primo materiale inedito in quasi dieci anni: Step into the light e It can never be the same ricalcano i percorsi già ampiamente battuti. Ma c’è Just like heaven. C’è Pictures of you. Anche Friday I’m in love: altro che nero, pochi sono in grado di scrivere canzoni così euforiche.

Il merito è delle canzoni, del nero e del pop, dell’immaginario creato dai Cure. Ma anche e soprattutto di una geniale intuizione narrativa, un po’ cinematografica e un po’ letteraria. La creazione di una maschera immortale che rende tutto questo plausibile, la tristezza e l’euforia, la depressione e la voglia di condivisione. Si chiama Robert Smith ma ha un aspetto poco umano, quasi indefinibile. È un clown nero ma anche una rockstar post esaurimento nervoso. I capelli arruffati tenuti miracolosamente con la lacca. Gli occhi bistrati di nero che si spalancano fino a impaurire e poi si socchiudono indifesi. E poi c’è quella camminata a spalle strette che diventa poetico balletto da mimo impazzito. Non invecchierà mai questa maschera. Horror, circense, Tim Burton, Sorrentino. Invecchierà il suo interprete ma la maschera no. Ancora una volta abbandonerà l’amata chitarra con cui si protegge per guadagnarsi la scena durante Close to me e un po’ più svociata ma ancora più tragica interpreterà “l’incredibile spettacolo della vita e della morte”. Questa è la cura di Robert Smith per la vita.

La scaletta del concerto

Shake Dog Shake
Fascination Street
A Night Like This
The Walk
Push
In Between Days
Play for Today
Step Into the Light
Pictures of You
Lullaby
Kyoto Song
High
Charlotte Sometimes
Lovesong
Just Like Heaven
From the Edge of the Deep Green Sea
One Hundred Years
Give Me It

It Can Never Be the Same
Burn
A Forest

Want
Never Enough
Wrong Number

The Lovecats
Hot Hot Hot!!!
Let’s Go to Bed
Friday I’m in Love
Boys Don’t Cry
Close to Me
Why Can’t I Be You?

© Gianni Santoro

The Night We Created The Cure

“So the first bit of lyric we pull out of the hat will be our new band name, right?”

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Editor’s Note: LaurenceLol” Tolhurst is a co-founder of The Cure—as its drummer, he helped write and record the band’s first four albums. In this excerpt from his new book, Mr. Tolhurst provides an insider’s account of the early days of the band and a revealing look at the artistic evolution of his childhood friend, the enigmatic Robert Smith.

We finally got a gig at the Rocket in May 1977. We were now all eighteen, so Fred, the Rocket’s landlord, wouldn’t fall afoul of the child work laws or something. Clever old Fred.

He actually didn’t ask us outright anyway. Rather, our friend’s band Amulet, fronted by ex-Malice guitarist Marc Ceccagno, couldn’t do the gig they had been booked for at the Rocket, so, sens­ing an opportunity to actually get us out there in front of real people, I called Fred.

“Er, yes… the Rocket public house?”

The phone was answered by Fred himself in the voice I pre­sumed he usually reserved for outstanding creditors.

“Yes, hello, Fred? I heard that Amulet can’t play the pub this week. They all have bad colds, they asked us to fill in for them?”

Fred sounded a little suspicious, “And what are you lot called, then?”

“Easy Cure.”

We had literally pulled the new name for the band out of a hat. After our disastrous gig at St. Wilfrid’s it seemed like a wise idea to change the name, but we couldn’t agree on one. Robert [Smith] hit on a solu­tion. He had seen something about Bowie or William Burroughs cutting up phrases from their writings into strips and reassembling them into new prose or song lyrics. So we cut all our own lyrics up and put them into a hat. The first fragment we pulled out would be the name of the band. It seemed both democratic and punky all at the same time.

We sat in the small hallway of the Smith’s house, by the harmo­nium we sometimes utilized for the triptych songs we were currently making.

“So the first bit of lyric we pull out of the hat will be our new band name, right?” Robert asked.

“Sounds good to me,” I said.

Robert reached in and pulled out a small, white, screwed-up scrap.

“What’s it say?” Michael and I asked.

“Easy Cure,” said Robert, who looked a little crestfallen that one of his word fragments wasn’t the plum pulled from the pudding. “Easy Cure” was from a lyric that I had partially written.

“Anyway, fair’s fair, so Easy Cure it is!” I thought out loud.

However, Robert got his way later on, because we changed it to The Cure, which he thought sounded much more punky and now than Easy Cure, which sounded more hippie-fied.

I couldn’t really argue with that. I wanted us to be more punk anyway.

“So what kind of music does Easy Cure play?” asked Fred.

I panicked slightly. I hadn’t really thought about that one. We just wrote songs from our own experiences and thoughts. I don’t think we thought about labels, although we were certainly influenced by the current rash of punk bands we were now seeing whenever we could. In addition to The Stranglers at the Red Deer and Crawley College we saw Buzzcocks at the Lyceum.

“Um, well, we do some of our own stuff and a few popular cov­ers,” I offered hopefully.

“Yeah, well, they like to hear something they know, so play some­thing they know,” said Fred, hammering his point home. “Be here at 6 p.m., start playing at 6:30–7 p.m. You play two sets and you have to finish before last orders at 10:30 p.m.”

To this day I’ve no idea what they paid us. I probably didn’t take it in, as I was just so happy to get our first proper paying gig! And so it started. Paying our dues in the Rocket at first to the reg­ulars, and gradually, over the next year or so, to increasingly varied audiences from the area as word spread.

Of course, we had to play some covers, as Fred had predicted. “Locomotive Breath” by Jethro Tull, made completely punky by leaving out the long piano intro and flute(!), was one I recall that was particularly liked by the Rocket’s older patrons.

Gradually we honed our set to include more of our own material, crammed together on that tiny stage in the corner of the pub, and learned what every band must learn if they hope to establish them­selves as a real band.

We perfected the subtle signals between us all to enable the songs to come out sounding right and keep the show rolling along with intensity and power. We learned our stagecraft on that small stage all through the year, in between seeing some of the best bands of the punk revolution.

We played about thirteen gigs at the Rocket. It felt like we were there so often we were practically the house band. At every gig there were more people, and we grew in confidence as we honed our sound. In the autumn of 1977, Peter left the band. We had played a gig at the Rocket on September 11, and after the gig he told us it was his last.

“Hey, chaps, I think I have a different calling. I’m, um, off to a kibbutz in Israel.”

“Really?” I asked him somewhat incredulously. “That’s what you want to do?”

“Yeah Lol, that’s the plan.”

I was a little stunned. After all, we were just getting properly started. In retrospect it had been obvious the last few months that his heart wasn’t in it anymore. We wished him luck and looked around for another singer to replace him. It was frustrating, to say the least. We were starting to express our own ideas, finding our own raison d’être, and now we were in desperate need of a good front man to convey that to audiences who didn’t know us at all.

Then Robert did something that really changed the whole course of The Cure. Up until then I don’t think Robert had thought about being the guitarist and the singer, but I think he realized right then, when Peter left, that if he was going to make a difference in this world, if he was going to be able to get across what he wanted to say, he would have to be the front man, he would have to take that on.

I have a theory. There comes a day when every single one of us is confronted with the abyss. Sometimes it’s a heart-wrenching breakup. Sometimes it’s the loss of a loved one. Some have it early and some people get it late, but we all have that moment when we look down and there’s nothing fucking there. People want their rock stars to go further out on the edge and hang out there for a bit, take a good long look at that abyss, and then transmit what they find there through their art.

Ian Curtis did it. Kurt Cobain did it. So did Robert Smith, ex­cept he didn’t just look at the abyss, he was on intimate terms with it. He had things he had to say about the darkest parts of the human experience, and people were either attracted to that or repulsed by it. He’s been like that for as long as I’ve known him. Even at the very start, he had stuff he needed to say. He tried to fight it. I think that’s why he picked up the guitar, so he’d have something to put between himself and the abyss. In the beginning, he tried to hide behind it. He was just the guitar player. When Peter left and the band wasn’t working right and the music we were playing didn’t match the vision he had for it, he assumed the duties of the vocalist. We were still teenagers, but even then he knew what it meant, what he was getting into. It’s one of the bravest things I’ve ever seen anyone do.

The Rocket was where Robert taught himself how to front a band, how to be in the center of the storm and love being there.

In that dismal little room in deepest Sussex, a whole new future was started.

Excerpted from Cured: The Tale of Two Imaginary Boys by Lol Tolhurst. Copyright © 2016.


The Cure a Bologna, tre ore di dark show

Trentadue anni dopo, Robert Smith è tornato in città. In scaletta tutti i principali successi

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Immaginate di aver passate l’infanzia ad ascoltare vostro padre cantarvi ninnananne che raccontano cose rassicuranti come “Dormi ora o non ti sveglierai mai più”. Certo, crescerete con un immaginario dark e un certo fascino per il buio e le tinte scure, ma magari da grandi ci scriverete pure su una canzone, che può addirittura finire per diventare un classico che interi palasport cantano e accolgono con un boato, tipo “Lullaby”, appunto.

A 32 anni dall’ultima volta, riecco finalmente The Cure a Bologna, e per farsi perdonare dalla lunga assenza propongono ai 16mila dell’Unipol Arena uno show vicino alle tre ore e una scaletta quasi didascalica di quella che è la storia della più importante band della scena dark wave e post punk inglese tuttora in attività. Nei prossimi giorni, poi, il, gruppo britannico sarà anche a Roma e due volte a Milano.

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Dei Cure originali resta solo il frontman Robert Smith, e anche se il tempo passa per tutti è come te lo immagini, come lo hai visto mille volte in foto, con il trucco bianco, il pallore, quei cappelli scomposti alla Edward mani di forbice. La voce, pure, è quella che ricordi e riconosceresti tra mille, e ha retto bene allo scorrere degli anni, pagando magari qualcosa nella coda dello show, ma dopo oltre trenta canzoni è comprensibile. C’è un po’ di tutto, tranne l’ostico “Pornography”, nella setlist di questo tour, pur in continuo aggiornamento data dopo data. Un inizio col piede sull’acceleratore, con “Plainsong” in apertura seguita a breve da “Closedown” e “Push”, poi dopo oltre un’ora e mezzo la prima pausa, che prelude a tre blocchi di bis che di fatto danno inizio a un altro concerto, a partire da un quartetto di canzoni tratte da “Seventeen seconds”, il secondo disco datato 1980. E pare che Smith abbia finalmente fatto pace anche con quelle super hit del loro repertorio di cui s’era disinnamorato proprio a causa dell’eccessiva popolarità che avevano guadagnato, vedi “Friday I’m in love”, arrivata in un finale che riserva i momenti più pop della serata subito prima dell’altro brano cult “Boys don’t cry”.

È forse l’autunno della malinconia rock, delle grandi band storiche che non s’arrendono al tempo che passa, mettono indietro le lancette e rivendicano ancora un ruolo primario nello scenario musicale odierno. Giusto un mese fa abbiamo visto in questo stesso palasport gli Who, sulla strada sono tornati Rolling Stones, Roger Waters, Bob Dylan e tanti altri. Tra cui i Cure, che di essere alla moda non si preoccupano affatto, fieramente fuori dai tempi col loro abbigliamento e con i toni cupi, a volte decisamente oscuri, della loro dark wave decadente. Per poi scoprire che quando parla Smith è capace addirittura di fare battute. Della serie, anche i principi del buio sanno ridere.

© Luca Bortolotti & La Repubblica

Philip Anselmo: Why I Love The Cure

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Down frontman Philip Anselmo pays tribute to Robert Smith’s goth kings, The Cure

Having risen to fame with metal legends Pantera and kept things pounding along with Down, Philip Anselmo is not the most obvious advocate for The Cure’s darkly romantic goth anthems. And yet, as he explains here, Robert Smith’s gloomy mob are an essential part of his record collection…

I was a teenager, living in Texas, when I was first turned on to The Cure by a friend. I’ll be honest, it’s two of the older records that most absorbed me: Seventeen Seconds definitely my number one, and then Faith would be number two. I like certain songs off all their records, but those two in particular grabbed me. I have an incredible amount of respect for the band, but at a point they got so popular that I kinda lost interest, which I know is a little shady on my part.

But Seventeen Seconds is amazing. It almost sounds like a four-track recording, and essentially it’s Robert Smith and a drum machine, but there’s a great atmosphere and vibe on that record. I love the moodiness of the album. It’s a perfect evening-time record, with that dark, sexy atmosphere. And Faith is really great too.

One of the most impressive things about The Cure is the way Robert Smith could conjure up so much wonderful atmosphere to frame these great songs. You can do anything in that atmosphere: burn some candles, light some incense, cook food and hang out with a chick.

Like The Smiths, another band I love, The Cure aren’t a band for everyone, and certainly some of my teenage metalhead buddies back then were confused, to say the least, as to why I’d listen to them. But if they were supposed to be a guilty pleasure, I didn’t feel very guilty about listening to them. And most of my friends were open‑minded enough to understand why I would like them and what I could hear in them.

People might not necessarily hear any direct influence from Robert Smith in the albums I’ve made, but I’ve been sitting on a great wealth of four-track recordings that the world has never heard, and I think I’ve made some music among them that, while not similar to The Cure, is in the same vein in terms of mellow, atmospheric music.

I’ve definitely drawn a lot of inspiration from Robert Smith, with the simplicity of the music and the sounds he gets. His songs are… romantic, for lack of a better word. It’s rare to find songs that do what they do. They have a beauty to them and they definitely touch a spot in my heart.

© Team Rock

The Cure, dieci brani (più uno) per prepararsi al ritorno in Italia

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I The Cure stanno per tornare in Italia per quattro concerti (Bologna, doppia data a Milano e Roma) e come sempre il loro passaggio scuote gli animi più inquieti. Per prepararmi al meglio al ritorno di Robert Smith e soci ho pensato di passare un weekend a ripercorrere l’intera discografia. Per due giorni ne sono stato totalmente risucchiato, rendendomi conto di quanto sia maledettamente impegnativo passare in rassegna tutte le loro fasi. Sono passato dal sentirmi annegare in una pozza di sangue nero a sentirmi innamorato pure del mio cuscino. Mi sono frammentato e ricomposto così tante volte da aver perso la cognizione del tempo, ma alla fine sono riuscito ad estrapolare una mia personale top 10 (+ bonus track).

Boys Don’t Cry

Il pezzo più celebre del disco d’esordio dei The Cure in realtà ha visto la luce solo nella ristampa per il mercato americano. Il titolo del disco viene addirittura cambiato e il brano in questione, oltre a diventarne quello di maggior successo, ne è anche la title-track: “Three Imaginary Boys” approda negli States proprio con il titolo “Boys Don’t Cry”. Il pezzo è irresistibilmente romantico, con un testo dalla sincerità commovente. Se confrontato con il resto del lotto, o con il materiale che va a comporre la successiva trilogia discografica, è un’anomalia. Uno dei brani più ballabili mai scritti dalla band inglese, un’efficace vena punk lontana dai claustrofobici pattern sui quali è stata costruita la carriera di questa pietra miliare.

A Forest

Tratto dal secondo amatissimo album in studio – “Seventeen Seconds” – “A Forest” più che un brano è una definizione. Nei suoi quasi sei minuti di durata racchiude allo stesso tempo l’incipit e la perfetta summa di quello che è stato il lavoro dei Cure nell’ambito dark-pop. Pop perché si tratta di un brano semplice, dai suoni tanto puliti da essere in grado di edificare nella testa di qualunque tipo di ascoltatore. Eppure dannatamente selettivo perché intriso di oscurità e disperazione, come solo un granitico manifesto dark potrebbe essere. Il basso di Simon Gallup (qui impegnato anche con le tastiere) è uno dei più seminali degli anni Ottanta e accompagna la voce e la chitarra di Robert Smith attraverso una foresta avvolta dalla nebbia. Una nebbia che sembra infittirsi nota dopo nota.

The Drowning Man

Tra tutti i brani contenuti in “Faith”, forse il disco più decadente della discografia dei The Cure, “The Drowning Man” è quello più funzionale. Mentre la ritmica iniziale sembra invitare innocentemente, l’incedere dei riverberi trascina l’ascoltatore in una spirale di angoscia. In qualche modo è come se i The Cure fossero riusciti ad inserire nella traccia una forza centrifuga in grado di farci girare senza sosta, senza permetterci di uscirne. Così come per la foresta di “Seventeen Seconds”, anche in questo caso la metafora scelta è talmente vicina alla reale percezione da sfiorare il miracolo. Impossibile non sentirsi come un uomo sul punto di affogare, in un totale annichilimento dei sensi.

The Hanging Garden

“Pornography” è il terzo capitolo di una trilogia che arriva a definire i The Cure – soprattutto per chi ancora oggi si rifiuta di accettare la fine del loro periodo dark – e l’intero decennio Eighties. Ma è anche il lavoro che quasi uccide la formazione britannica, spingendo il suo principale autore verso una voragine di depressione e portandolo ad una rottura apparentemente irreparabile con Simon Gallup. “The Hanging Garden” si colloca all’interno di questo distruttivo lavoro come uno sfogo ossessivo-compulsivo, il momento più allucinato dell’album, nonché il più ispirato.

In Between Days

Dopo la virata di “The Top”, disco che sancisce la fine del buio e l’arrivo inaspettato di luce e colori, Robert Smith lotta contro la sua grave dipendenza dalle droghe ed esce da uno strano periodo di transizione in cui lavora praticamente come un artista solista, per entrare in uno dei periodi più prolifici per i The Cure. Torna Gallup, la band è di nuovo una band e viene pubblicato “The Head On The Door”, disco che rappresenta magnificamente l’inaspettata rinascita e contiene alcuni tra i pezzi più belli e radiofonici del repertorio. Ne è un esempio “In Between Days”, brano catalizzatore di tutti gli spunti positivi nati dalla risalita dall’oblio.

Push

Con “Push” i Cure dimostrano di non essere più solo una band adatta a determinati profili e non lo fanno ricorrendo solo al pop o a dinamiche più solari e positive. Si lanciano anche nel rock, quello di respiro ampio, quello epico che affascina. Ma non si tratta di un’incursione, è più una convergenza. Perché di fatto, pur avendo sempre sguazzato nella new wave e nel post-punk, hanno sempre sfiorato il rock, per lo più quello gothic, dando l’idea di poterlo afferrare in qualunque momento. L’arena-rock di “Push” in tal senso è come un sasso che precipita su uno specchio d’acqua, la fonte da cui si propagano le onde concentriche che arrivano a toccare tutti i dischi pubblicati dal 1979 al 2008.

Just Like Heaven

Dopo aver capito cosa avrebbe potuto renderli ancora più imponenti e totalmente consapevoli del loro potenziale rock, i Cure pubblicano “Kiss Me Kiss Me Kiss Me”, un lavoro catchy che pur lasciando intravedere un ritorno alle tinte dark, punta tutto su una grande produzione e su alcuni brani dal tiro invidiabile. Gli stadi sono pieni, le apparizioni televisive non si contano neanche più e a trainare il successo del disco c’è il loro singolo definitivo, ovvero quello che non sfigura in una compilation di evergreen del rock ma che mette a proprio agio qualunque ascoltatore occasionale: “Just Like Heaven”.

Pictures Of You

“Disintegration” (1989) è l’album più eclettico dei The Cure. Ogni pezzo potrebbe reggere il confronto con intere discografie. I singoli sono perle e quelli che non sono singoli sono comunque così belli che dovrebbero essere title-track di dischi a se stanti, con abbastanza spazio per poter espandere gli innumerevoli spunti. Eppure tutti insieme compongono un organico perfetto, maestoso, l’unico in grado di far vivere anacronisticamente i Cure della darkwave, con tutte le loro angosce, senza perdere il focus su un sound moderno, maturo e altamente vendibile. Tra i singoli si erge “Pictures Of You”, un pezzo in cui l’ossessione è descritta e presentata come qualcosa di dolce. Un colpo da maestro.

Fascination Street

Tra tutte le piccole opere d’arte contenute in “Disintegration”, ce n’è una che sembra vivere di vita propria. Come accade per quasi tutto il platter, le tastiere vogliono essere protagoniste, qui fautrici di una melodia ipnotica, ma il basso di Gallup si insinua tra i tessuti e crea scompiglio. La voce di Robert Smith è più comunicativa che mai e racconta una storia proibita, nell’episodio più seduttivo della sua carriera. Uno degli esempi più chiarificatori di cosa voglia dire indossare una maschera di trucco per non mostrarsi indifesi agli occhi del mondo, e allo stesso tempo rendere quella maschera un’icona universale.

A Letter To Elise

Alle persone piace da morire poter dire “ah, quello è l’ultimo vero album che hanno fatto” parlando di una band che hanno amato. Ai fan dei Cure, il più delle volte, piace identificare quell’album con “Wish”, del 1992. Oltre all’inflazionata hit “Friday I’m Love” (geniale nel suo diventare attuale una volta a settimana), il fiore all’occhiello di questo colpo di coda di una carriera clamorosa è “A Letter To Elise”. Il testo è uno spietato trattato sull’amore, una missiva in grado di frantumare qualunque cuore.

BONUS TRACK: Burn

Poche band nella storia hanno incarnato il concetto di “cult” come i The Cure. E cosa accade quando un gruppo cult scrive un brano per la colonna sonora di un film cult, tratto da un fumetto cult? Lo si scopre ascoltando la colonna sonora de Il Corvo. “Burn” è il brano che Robert Smith ha composto per l’indimenticabile film diretto da Alex Proyas, e tratto dall’omonimo fumetto di James O’Barr. Eric Draven, il personaggio interpretato da Brandon Lee, è una delle icone più potenti della cultura dark e nessuno meglio dei Cure avrebbe potuto musicarne le gesta. “Burn” non solo è uno dei pezzi più belli accreditati alla band britannica, è anche la punta di diamante di una delle migliori colonne sonore del cinema anni Novanta.

Crónica de The Cure: Noche de largo aliento

La semana pasada, la legendaria banda inglesa The Cure comenzó la etapa europea de su gira mundial, llamada sencillamente “Tour 2016”. Estocolmo fue la 3ª parada en este recorrido, para la cual fueron acompañados por los escoceses The Twilight Sad.

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Había grandes expectativas sobre el concierto. Muchos fans habían viajado desde Helsinki, la anterior fecha – donde la banda no había tocado desde hacía 20 años- esperando cambios significativos en el setlist. Y es que lo que impresiona es el interés genuino de la banda en el repaso de su propia historia: The Cure ha ensayado noventa canciones para poder variar tanto como sea posible en ésta gira. Lo que nos hace pensar en otras bandas de estadio, que ya podrían hacer lo mismo en vez de tocar prácticamente las mismas canciones noche tras noche. The Cure ofreció un puñado de rarezas, algunas que no habían sido tocadas en directo en unas tres décadas y otras inéditas en vivo.

Se apagaron las luces y unas campanas sonaron en la oscuridad. Una especie de apertura flotante e hipnótica dio inicio a “Plainsong” e inmediatamente a “Pictures of You”, seguida de “Close Down”; un tríptico idéntico al que aparece en el disco ‘Disintegration’ que obedece a una atmósfera que encaja perfectamente con la helada lluvia de otoño que se asentó sobre Estocolmo esa noche. La apertura provocó grandes sensaciones, reflejadas en los rostros de los asistentes. A pesar de que ser un inicio relativamente tranquilo, pronto se pasaron al rock psicodélico con gemas como “The Baby Screams” y “Push”, provocando la reacción del público.

La acústica del Globen es de las más impresionantes que he experimentado en la vida. De hecho, el sonido era tan claro como el cristal, como estar escuchando un álbum en el salón. A Robert Smith se le veía igual que en los 80, vibrante y simpático. Sabiendo que el concierto va a durar mucho tiempo, el estado de ánimo en un principio es un poco perezoso y, aunque los suecos no son famosos precisamente por su efusividad, bailotean en sus asientos. Los aficionados de más de cuarenta añitos se toman todo muy tranquilamente. ¿Es más fácil hacer frente a los treinta y pico éxitos gigantes que se esperan si se lo toma uno con calma? Mientras busco la respuesta, pienso en como “In Between Days” y “Just Like Heaven” se deslizan más allá del tiempo.

Con casi cuarenta años de carrera, es obviamente difícil elegir qué canciones tocar, pero The Cure escapa del espectáculo y entran en la dimensión del contenido con “Sinking”, una interpretación tan intensa que provocó desmayos en las primeras filas.

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En “A Night Like This” la imagen del grupo se proyectaba escala en las cinco pantallas y se perdía en el infinito. Robert Smith emitía a menudo un cuasi aullido, que le hace parecerse a un gato satisfecho. Su pelo enredado se ha tornado gris, pero esa voz que le sale de los labios rojos pintados descuidadamente provoca tantas cosquillas como siempre.

El grupo es atravesado por haces de luz, decenas de ellos, e inicia “All I Want”, una forma de canción-lamento con corte directo a “The Walk”: es como estar en una montaña rusa, en un viaje esquizofrénico por diferentes emociones y estados de ánimo. Desde canciones – en apariencia- ingenuas, a la paranoia, el delirio y la sensación del fin del mundo.

En “The End of the World”, un garabato salido del arte del álbum The Cure baila en las pantallas al ritmo de la canción. Al finalizar, las luces se quedan bajitas primero en tonos azules y luego púrpuras, mientas se escuchan las primeras notas de “Love Song” que musicalmente suena algo menos deprimente y directa. En las sombras, Robert Smith coge la guitarra acústica para dar inicio a un set electroacústico, que inicia con “Friday I’m In Love” y la gente enloquece. En las pantallas se proyectan corazones con la estética del álbum ‘Wish’. Al terminar, sigue “Doing The Unstuck”, dejándonos un tono agridulce.

Es sorprende lo bien que conserva la voz Robert Smith, quien se muestra de buen ánimo, bailotea y conversa entre algunas de las canciones. Al terminar “Boys Don’t Cry”, comenta, al tiempo que coge su guitarra acústica: “Sé lo que estáis pensando: ¿Ahora qué van a tocar? A partir de aquí, ya sólo pueden ir cuesta abajo.” Sin embargo, tocaba el turno de otra joya: “Jupiter Crash”, una delicia musical, a la que le sigue “From the Edge of the Deep Green Sea”; la yuxtaposición entre ambas resulta simplemente fenomenal. Las guitarras Reeves Gabrels acompañan a Smith llorosas. Riffs inolvidables, angustiantes. Al fondo, en las pantallas, una imagen del mar durante una tormenta eléctrica, mientras la banda está inmersa en una luz azul. Robert deja la guitarra acústica para conducir a otra parte más eléctrica con “The Hungry Ghost”, seguida por una fantástica interpretación de “Disintegration”.

Primer Encore. Yngwie Malmsteen expresó una vez su total incomprensión ante el dicho “Menos es más”: “¿Cómo puede ser más, menos? Es imposible: Más es más…”. Robert Smith probablemente estaría de acuerdo.

Cuando The Cure dio un concierto en el Royal Albert Hall, años atrás, The Guardian escribió que deberían haber reducido el concierto a noventa minutos. La banda rechazó las críticas: “Cuando vemos un artista que somos aficionados, no queremos que el concierto termine. Eso es lo que significa ser un fan, ¿verdad?”

A su regreso al escenario, vendría otra rareza: “It Can Never Be The Same”, pieza profundamente sombría en la que Robert Smith suena bastante atormentado; uno de los estrenos predilectos de esta vuelta al mundo. Ya sumergidos en esta atmósfera angustiante vendría “One More Time”. Al finalizar, Robert coge una flauta que cuelga de su micrófono y las primeras notas de “Burn” se asoman. Desesperación llevada al extremo con el beat de Jason Cooper, que transformó la pieza en directo, contrastando unas percusiones casi festivas con la línea de bajo oscura y siniestra.

Las lucen quedan muy bajas y algunos haces verdes comienzan a filtrarse. Con los primeros acordes de “A Forest”, la gente bailó emocionada. El bosque delirante de sus pesadillas se proyectaba en el fondo dando vueltas. Hacia el final, cada acorde en el bajo es acompañado por casi diez mil palmas.

Segundo Encore. Los conciertos de The Cure no siempre ha sido tan largos. A finales de los años 80, se contentaron a menudo con veinticinco canciones. Pero después de que ‘Wild Mood Swings’ marcase el fin de su apogeo comercial en 1996, las listas de pistas comenzaron a expandirse. Tal vez sea una manera con la que Robert Smith mantiene la confianza en sí mismo, o tal vez sea sólo el gusto de tocar lo que le da la gana.

La banda sale del escenario unos minutos y, al regresar, Robert se frota el pecho y agradece tímidamente: “Tack!”. Entonces abordan la sombría “Shake Dog Shake” para conducir a otra pieza siniestra favorita: “Fascination Street”, repleta de riffs inolvidables y luces que formaban partículas de colores brillantes flotando en las pantallas del fondo, acentuando la atmósfera psicodélica y extraña. Inmediatamente inician “Never Enough”, en apariencia marcando un fuerte contraste; sin embargo, la audiencia participa y canta, al igual que con “Wrong Number”.

La banda sale nuevamente del escenario pero regresan pronto; quizá son conscientes de que es domingo y probablemente algunos de los asistentes trabajen al día siguiente. No sé porqué, pero este pensamiento me hizo recordar el momento en 2013 en el que el icono goth celebró su cumpleaños con un maratónico concierto de cincuenta canciones en la Ciudad de México, sacudido por un terremoto de 5,9 grados Richter.

Todavía quedaba un tercer encore. Y una especie de temblor es lo que provocan al regresar con los primeros acordes de “Lullaby”, reviviendo al públicio. En las pantallas se proyecta una araña en una telaraña gigante, moviéndose lenta e hipnóticamente. Al terminar, más sorpresas, y es que tocaron “The Perfect Girl”, una rareza que apenas han interpretado en vivo desde 1987. “Hot Hot Hot!!!” puso a cantar a los suecos de nuevo. Ya en la onda agridulce, continuaron con “The Caterpillar”, para seguir con “Close to Me”.

La banda agradeció con un bailable “Why Can’t I Be You?”, entregados al público. La banda enfrentó treinta y cinco canciones y ha estado de pie en el escenario durante más de tres horas. Robert será pálido y anémico, pero rockear sin parar no parece ser un problema. La banda tocó con sereno entusiasmo y fuego. De hecho, Simon Gallup bailó como un loco poseído por todo el escenario durante todo el concierto.

¿Será esta la última vez que veamos a una de las bandas favoritas de la historia? Si es así, sería un final muy digno. Pero la música persistirá durante generaciones.

Póster de la gira de The Cure en España (2016), pasando por Madrid, Bilbao y Barcelona en Noviembre

© Rebeca Martell