The Cure chiudono la terza serata dell’Heineken Jammin Festival edizione 2012 con un’esibizione attesissima e inusuale. Che induce a una riflessione sul futuro della storica band del post punk inglese
Sul palco Robert Smith sorride. Un sorriso freddo, scenico, quasi un riflesso incondizionato mentre intona le note iniziali di Lovesong, il brano che soddisfa le prime attese del pubblico di fan storici, giovani goth e musicofili dai gusti eterogenei.
Chi lo segue da tempo sa leggere ben oltre il sorriso di circostanza impresso sul viso cinereo di questo romantico Pierrot dal cuore di tenebra. Assorto e silenzioso, fa scivolare le dita lungo le corde di una chitarra loquace, su cui campeggia la scritta “2012: citizens not subjects” (2012: cittadini non sudditi), in un chiaro riferimento al giubileo elisabettiano.
A 33 anni dalla pubblicazione del loro primo album, Three Imaginary Boys, e a quattro dal più recente, 4:13 Dream, i Cure sono tornati, attesissimi, in Italia.
Non con un nuovo disco da promuovere, ma come headliner della terza serata conclusiva dell’Heineken Jammin Festival. La scelta del leader è chiara e l’aveva annunciata egli stesso: sarà un’estate di tour attraverso i principali Festival internazionali.
Per l’occasione la band sfoggia una line up seminuova: con Smith ci sono Simon Gallup, Roger O’Donnell, Jason Cooper e Reeves Gabrels. Anche la scaletta live, focalizzata sui brani più pop degli album più recenti, appare studiata più per un pubblico da Festival che per gli estimatori.
Si dovrà attendere il primo bis per un viaggio a ritroso nel puro universo Cure. Shake dog shake, Bananafishbones, The Top: tre oscure perline tratte da uno degli album meno acclamati, ma decisamente tra i più onirici della band inglese.
L’emozione è forte, ma dura poco. Giusto il tempo di un paio di bis e di una riflessione più profonda sulla storia di una band che ha rivoluzionato il mondo della musica post punk, inventando uno stile unico, incisivo, permeato da un nichilismo romantico e da un sound, inconfondibile, che unisce sapientemente rock dell’oscurità e dolcezza decadente. E testi forti, spesso lisergici, che affrontano e si confrontano con gli aspetti più scomodi della vita, le emozioni più delicate o inquietanti, i lati bui dell’esistenza.
Oggi come allora, la ricerca del cinquantatreenne Robert Smith sembra ancora The Cure, la cura. A un malessere esistenziale eviscerato e combattuto, negli anni, in tutte le sue forme. Forse in parte risolto, apparentemente riemerso con un’insistenza che potrebbe imporre all’artista una svolta urgente (“Non sono depresso, è solo che non credo nella gioia” su XL di agosto 2012). Verso la ricerca di una maggiore consapevolezza sull’amore, sul dolore, sul senso della vita.
“See you soon“, “Ci vediamo presto”, dice Mr Smith per rassicurare il pubblico in visibilio (attirato dall’idea che questo potrebbe essere il suo ultimo live) prima di chiudere l’esibizione, regalando quella che è la canzone-manifesto degli innamorati feriti, con ancora un briciolo di orgoglio: Boys don’t cry.
E suona come una sincera promessa ai fan. Oltre all’ennesima, audace sfida con se stesso.
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Ma mi piace la musica the cure….ma è inquietante…mi chiedo perché il genere umano covi tanto dolore che trova in the cure la sua dimensione nella musica…sono attirata è mi fa paura lulluby… vorrei che il dolore non esistessero è anche Robert Smith trovasse una cura👾👾👾